Insieme a quello di Basedow, il Sovrallenamento di Addison è una delle due tipologie di sindrome da sovrallenamento (certamente quella più diffusa) in cui possono incorrere più facilmente i corridori abituali.
Contrariamente al Sovrallenamento di Basedow, che presenta caratteristiche leggermente diverse e insorge più frequentemente in soggetti che svolgono allenamenti con sovraccarichi (tra cui gli atleti delle OCR), il Sovrallenamento di Addison è maggiormente riscontrabile in quegli individui che svolgono prevalentemente attività aerobiche di resistenza senza rispettare i naturali tempi di recupero dell’organismo. Ma quando possiamo renderci conto di esserci imbattuti in tale sindrome e, soprattutto, quali sono i sintomi principali che ne caratterizzano l’eventuale insorgenza? Vediamo insieme i più importanti:
A causa della grande genericità dei sintomi sopra appena riportati, risulta particolarmente difficile individuare in un soggetto l’insorgere del Sovrallenamento di Addison. Tuttavia, quando, dopo uno stress allenante di una certa durata, se le prestazioni sportive calano costantemente o si verifica invece un arresto totale dei miglioramenti adattivi fin lì sopraggiunti, possiamo affermare con un certo grado di ragionevolezza di essere in presenza di alcune indicazioni abbastanza evidenti di tale sindrome. Come fare per uscirne? Il riposo è assolutamente imprescindibile (almeno per 1-2 settimane), ma la ripresa dell’attività deve essere ben calibrata ed estremamente graduale, perché il Sovrallenamento di Addison si instaura dopo un lungo periodo di sforzo prolungato in cui non sono stati rispettati i corretti tempi di recupero e la strada per uscirne non è sempre breve.
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Nel precedente articolo di Teoria dell’Allenamento abbiamo affrontato il discorso relativo ai meccanismi di Compensazione e di Super-compensazione, responsabili delle modificazioni adattative dell’organismo conseguenti ad uno stress allenante.
Nello specifico, il nostro corpo rimane adattato all’allenamento soltanto nel caso in cui continui a ricevere stimoli costanti nel tempo (Principio della Continuità del Carico), in quanto, secondo il Principio della Reversibilità, la mancanza protratta di tali stimoli comporta inevitabilmente l’avvio del processo inverso. Molti corridori, infatti, dopo un periodo di riposto forzato causato da eventuali infortuni, perdono gran parte degli adattamenti ottenuti in precedenza con l’allenamento, sebbene alcuni mantengano una sorta di memoria muscolare in grado di accorciare i tempi di recupero. Aggiungiamo inoltre che, secondo il Principio del Sovraccarico, l’organismo, dopo aver super-compensato, ha necessariamente bisogno di carichi di lavoro tendenzialmente crescenti al fine di poter garantire un miglioramento graduale e continuo. Tuttavia, la pianificazione del progressivo sovraccarico deve essere calibrata con estrema cura perché, quando non vengono adeguatamente rispettati i necessari e giusti tempi di recupero, sopraggiunge quasi sempre un fenomeno, particolarmente temuto da ogni atleta, chiamato Sovrallenamento o OTS (Over Training Syndrome) o, ancora, Overreaching. Non appena insorge una condizione di sovrallenamento, il corridore assisterà inevitabilmente a un generale decremento della prestazione e delle proprie condizioni di salute. Non è facile stabilire come e quando potrà verificarsi tale condizione, perché ogni soggetto è diverso per intensità di carichi di lavoro che può sopportare e per proprie caratteristiche individuali. In generale, al fine di scongiurare il rischio di sovrallenamento, sarebbe necessario programmare periodicamente delle fasi di scarico, che permettono al corpo di super-compensare in maniera adeguata. Senza un allenamento attentamente pianificato che, invece di favorire una risposta adattativa, causi invece un esaurimento delle risorse fisiche e mentali a disposizione dell’organismo, l’atleta noterà sempre un calo prestativo, con conseguenti ripercussioni sullo stato di salute, a volte anche piuttosto importanti. Esistono due principali OTS (Sindromi da Sovrallenamento), che interessano, in particolar modo, due differenti tipologie di atleti ma che, con il diffondersi delle gare di corsa con ostacoli (OCR), iniziano a colpire anche molti corridori che iniziano a cimentarsi in tale disciplina:
Nei prossimi articoli analizzeremo in dettaglio le singole caratteristiche di ogni tipologia di sovrallenamento, affrontando in seguito anche il discorso relativo al riposo e alle fasi di recupero. Un allenamento ben calibrato alle possibilità di ogni singolo soggetto, che sia cardiovascolare o puramente muscolare, se protratto nel tempo con regolarità e costanza, permette un graduale miglioramento del tono e del volume muscolare, sviluppando al contempo delle qualità specifiche come la forza, la resistenza e la potenza e generando degli adattamenti specifici all’interno del nostro organismo. Tutto ciò ci consentirà di ripetere lo stesso sforzo e, con i giusti tempi di recupero, persino di aumentarlo.
Ma come si ottengono tali adattamenti? Al fine di migliorare la condizione fisica derivante da un allenamento mirato è sempre necessario sottoporre i nostri muscoli ad un sovraccarico temporaneo, che li costringerà a reclutare il maggior numero di fibre possibile e a consumare quasi del tutto le scorte di glicogeno muscolare presenti al loro interno. Nel caso specifico della corsa, questo risultato è facilmente ottenibile inserendo all’interno del proprio programma di allenamento almeno una seduta di ripetute alla settimana, pianificata in base alla propria velocità di riferimento e al chilometraggio della gara da affrontare. Oltre alle ripetute, quasiasi corridore che voglia avere muscoli più forti potrebbe (e dovrebbe) inserire, anche una giornata di potenziamento muscolare in palestra. I soggetti più forti e allenati (o coloro che corrono le OCR, Obstacle Course Race) devono necessariamente alternare gli allenamenti, sviluppando contemporaneamente la propria capacità cardiovascolare e, in termini di forza, quella più puramente muscolare. Lo stress allenante, responsabile del sovraccarico temporaneo menzionato prima, produce inevitabilmente dei microtraumi a livello cellulare, inducendo allo stesso tempo delle momentanee modificazioni alla produzione ormonale. In seguito a tale stress, il nostro organismo tende sempre a tornare alla condizione iniziale di pre-allenamento e questo meccanismo viene denominato con il termine di Compensazione. Qualora lo stress allenante sia protratto nel tempo grazie ad un’attenta pianificazione dell’allenamento, il corpo preparerà invece le proprie strutture a essere sottoposte ad uno stimolo di pari intensità secondo il principio della Super-compensazione. È proprio grazie alla risposta adattiva di super-compensazione che saremo in grado di affrontare e sopportare meglio i carichi di lavoro successivi ai nostri primi allenamenti che prevedono un sovraccarico temporaneo. Tuttavia, affinchè il meccanismo della super-compensazione sia realmente efficace, è assolutamente imprescindibile prevedere, all’interno dei propri cicli di allenamento, delle giornate destinate al recupero muscolare. Se è pur vero che, se gli stimoli derivanti dallo stress allenante non sono adeguatamente ripetuti nel tempo, per il cosidetto principio di reversibilità le modificazioni indotte dall’allenamento con sovraccarico temporaneo tendono a scomparire, arrivando persino a causare una graduale regressione delle qualità muscolari acquisite, è altrettanto vero che, se tali stimoli sono ripetuti con troppa frequenza ed intensità, il nostro organismo si troverà in seria difficoltà nel tentativo di trovare le risorse a disposizione per poter procedere con una corretta super-compensazione. In tal caso, esiste il concreto rischio che il soggetto possa compromettere anche la fase di compensazione e, non rispettando i giusti tempi di recupero, incorrere nel temuto fenomeno del sovrallenamento (anche noto con i termini inglesi di overreaching o OTS, Over Training Syndrome), di cui parleremo più estesamente nel prossimo articolo. Esistono due opinioni contrastanti fra loro in relazione al Defaticamento, che si scontrano in merito alla necessità di svolgerlo sempre al termine di ogni prestazione o soltanto in determinati casi. Personalmente appartengo alla seconda scuola di pensiero, ma vediamo prima insieme di che cosa si tratta nello specifico.
Per “Defaticamento” intendiamo qualsiasi attività aerobica a bassa intensità al termine di un allenamento o di una gara. Il defaticamento dura solitamente 10 minuti, ma può anche essere protratto fino ad un massimo di 20 minuti, allo scopo di ridurre gradualmente l’intensità dell’attività fisica appena svolta. Parlando della nostra normale attività sportiva (ripetute su qualsiasi terreno e pendenza, medi e variazioni di ritmo-fartlek) il defaticamento consisterà necessariamente in una sessione finale di corsa leggera, a velocità progressivamente decrescente, per poi terminare con 2-3 minuti di cammino. Perché è necessario defaticare e quali sono i benefici del defaticamento?
Quando, invece, sarebbe opportuno non defaticare? È proprio dinanzi a questa domanda che le scuole di pensiero divergono in maniera inconciliabile. Di fronte a coloro che sostengono l’importanza del defaticamento in qualsiasi occasione, anche al termine di un lunghissimo o di una maratona, ci sono altri che supportano la tesi contraria (come il sottoscritto). Perché, infatti, aggiungere un’ulteriore attività aerobica ad una seduta particolarmente pesante o ad una gara? Personalmente ritengo che ciò andrebbe a ridurre al lumicino le nostre scorte di glicogeno già duramente provate e che, quando gli allenamenti sono estremamente ravvicinati e intensi, quei 10-20 minuti di defaticamento al termine di ogni sessione vadano ad aumentare soltanto il nostro senso di fatica. Pertanto consiglio di svolgerlo esclusivamente al termine di allenamenti di velocità o dopo un medio, ma anche in questo caso sarà la vostra personale esperienza a guidarvi nella scelta e nulla vi vieta di corricchiare anche al termine di una maratona. Riscaldarsi adeguatamente prima di iniziare qualsiasi attività fisica è altrettanto importante quanto allenarsi in maniera costante e graduale, ma quanti di noi seguono attentamente questa regola aurea?
Eppure basterebbe sapere che un buon Riscaldamento, effettuato prima di ogni nostra gara o allenamento, riduce significativamente il rischio di incappare in eventuali infortuni, aumentando al contempo il livello delle nostre prestazioni sportive. In termini squisitamente aerobici, la vasodilatazione indotta dal riscaldamento favorisce un maggiore apporto di ossigeno ai tessuti, un lieve innalzamento della temperatura corporea e, conseguentemente, un leggero aumento della nostra frequenza cardiaca, preparandoci ad affrontare al meglio il successivo sforzo. Il riscaldamento, inoltre, stimola la circolazione del liquido sinoviale nelle articolazioni, la trasmissione neuromuscolare e la contrazione muscolare, provvedendo anche all’attivazione del metabolismo. Affinché gli effetti del riscaldamento siano benefici è però assolutamente necessario eseguirlo in maniera graduale, progressiva e a bassa intensità, partendo sempre da una corsa leggera, mai esplosiva, che può durare dai 5 ai 15 minuti, e avendo cura che non sopraggiunga una sensazione di fatica prima dell’inizio dell’allenamento vero e proprio. Qualora si debba effettuare un lavoro impegnativo (ripetute o fartlek) può risultare utile inserire, al termine della corsetta di riscaldamento, alcuni esercizi pluriarticolari a corpo libero, unitamente a movimenti lenti di circonduzione di spalle, anche, polsi e caviglie che, pur essendo a basso impatto, simulano i successivi microtraumi indotti dalla corsa (avremo comunque modo di parlare e vedere tali esercizi in modo più approfondito in un successivo articolo). È bene, in ultimo, ricordare che gli effetti positivi prodotti dal riscaldamento perdurano per circa 15 minuti successivi al termine dello stesso ed è quindi importante non far trascorrere troppo tempo fra l’attività di riscaldamento e la nostra sessione di allenamento. Ogni corridore che si rispetti cerca sempre di migliorare le proprie prestazioni attraverso l’aumento della Capacità Aerobica, anche espressa attraversa la sigla VO2Max.
Che cos’è o, meglio, cosa rappresenta, la Capacità Aerobica di un soggetto? Possiamo semplicemente definirla come la quantità massima di ossigeno (espressa in millilitri) che il nostro organismo è in grado di utilizzare per ogni chilogrammo di peso corporeo in 1 minuto di lavoro. Più la nostra Capacità Aerobica sarà alta e più il nostro organismo sarà efficiente e prestante. Il modo migliore per aumentare la Capacità Aerobica è, ovviamente, l’allenamento, specialmente quando vengono inserite Ripetute di qualsiasi distanza, ma sarebbe comunque opportuno tenerla monitorata e calcolarla con frequenza regolare, in quanto i benefici ottenuti tramite l’allenamento sono reversibili, in caso di interruzione forzata o calo generale di forma dovuto ad altri fattori. A ogni modo, un’ottima prestazione durante la corsa non viene unicamente garantita da un buon valore di VO2Max, ma anche dalla nostra capacità di mantenere per l’intera durata dell’allenamento (o della gara) un consumo di ossigeno il più vicino possibile a quello massimo. Come calcolare, dunque, la propria VO2Max? Vediamo, di seguito, i due metodi più famosi:
Ed eccoci finalmente arrivati a trattare della fatidica Soglia Anaerobica, ossia di quel livello di intensità dello sforzo fisico oltre il quale la produzione di acido lattico è decisamente maggiore rispetto alla quantità che il nostro organismo è in grado di smaltire.
Oltre la Soglia Anaerobica aumentano anche rapidamente la produzione di anidride carbonica e la ventilazione e il costante e progressivo accumulo di acido lattico interferisce con il meccanismo di contrazione muscolare, costringendo ogni atleta a fermarsi. Al di sotto di tale soglia, invece, l’apporto di ossigeno rimane comunque sufficiente e in grado di smaltire l’acido lattico prodotto, riconvertendolo a livello epatico in glucosio e, successivamente, in glicogeno, a sua volta riutilizzabile dai muscoli. Diventa subito chiaro, quindi, che innalzare la propria Soglia Anaerobica è assolutamente fondamentale in termini di miglioramento delle prestazioni e cio è possibile attraverso allenamenti specifici, anche definiti Allenamenti di Resistenza al Lattato, che diminuiscono progressivamente la produzione di acido lattico e migliorano l’efficienza con cui questo viene smaltito e riconvertito in energia. Tutto questo si traduce, infine, in una generale diminuzione della velocità di accumulo dell’acido lattico e, dunque, in un miglioramento della propria prestazione sportiva. Come si calcola la Soglia Anaerobica? Vediamo insieme i metodi più diffusi:
Analisi chimica del sangue → effettuabile unicamente in uno studio/laboratorio professionistico o, in alternativa, acquistando un’apparecchiatura portatile in grado di misurare la quantità di lattato. Convenzionalmente, è stato stabilito che ci si trova in regime anaerobico lattacido quando la concentrazione di acido lattico nel sangue è superiore a 4 mmol/l (millimoli per litro). Nel precedente articolo relativo alla scienza dell’allenamento abbiamo visto come calcolare la Frequenza Cardiaca Massima e come vengono comunemente impostate le Zone di Allenamento in base a quest’ultima, ma l’utilizzo della FCMax per valutare l’intensità di un allenamento presenta comunque dei limiti che non devono essere sottovalutati.
Se, infatti, individui particolarmente allenati e in perfetta forma raggiungono la propria Soglia Anaerobica Lattacida (ossia quel limite oltre il quale la produzione di acido lattico diventa maggiore rispetto alla quantità che il corpo è in grado di smaltire) al 90% della propria FCMax, esistono invece molte altre persone sedentarie o che rientrano da un lungo infortunio e, quindi, da un periodo di inattività forzata, che raggiungono la soglia anaerobica lattacida al 50-60% della propria FCMax. Il raggiungimento della Soglia Anaerobica Lattacida può pertanto attestarsi, in generale, in un intervallo compreso fra il 50 e il 90% della FCMax. Diventa evidente, quindi, che le Zone di Allenamento non valgono in maniera uniforme per tutti, senza considerare, inoltre, che la FCMax varia in funzione di numerosi altri fattori, non sempre direttamente controllabili dal soggetto che si allena (basti pensare a condizioni di caldo estremo, privazione di sonno o periodi di malessere psicologico). Come ovviare a tale problema e calcolare in modo più preciso la Frequenza Cardiaca Allenante ideale per un soggetto che si allena invece con una certa costanza, in grado di far ottenere un sensibile miglioramento a livello fisiologico? Vediamo insieme i due metodi indiretti più famosi:
Croce e delizia di qualsiasi corridore degno di questo nome è la Frequenza Cardiaca e l’utilizzo del cardiofrequenzimetro durante allenamenti e gare.
A interessarci, in particolar modo, è la cosiddetta Frequenza Cardiaca Massima (o FCMax), l’indicatore sicuramente più adatto a stabilire l’intensità delle nostre sedute di allenamento, espressa in bpm, ossia battiti per minuto, e decisamente variabile da soggetto a soggetto, in base alle caratteristiche individuali di ognuno, all’età e al proprio stato di forma fisica. La Frequenza Cardiaca a Riposo è considerata assolutamente fisiologica in un intervallo compreso fra i 40 e i 100 bpm ma, tramite un buon programma di allenamento, il valore iniziale può essere gradualmente abbassato e questo incide sempre positivamente sulla resistenza del soggetto e sulle sue successive prestazioni, in quanto la Frequenza Cardiaca Massima verrà raggiunta con maggior ritardo e ad un livello di sforzo fisico maggiore. Come calcolare, pertanto, la Frequenza Cardiaca Massima? Attualmente abbiamo due differenti metodi indiretti a disposizione, che offrono un buon grado di approssimazione e risultati sostanzialmente simili; vediamoli entrambi in successione:
Al fine di poter pianificare una buona tabella di allenamento, dopo aver adeguatamente calcolato la propria Frequenza Cardiaca Massima, è possibile effettuare una suddivisione ragionata delle cosiddette Zone di Allenamento in base alla percentuale della FCMax che le contraddistingue. Analizziamole insieme:
Al termine di questa breve carrellata sulle Zone di Allenamento sorge forse spontanea una domanda. Cosa accade quando, invece, si supera la Frequenza Cardiaca Massima? Personalmente l’ho sperimentato una sola volta al termine di una gara di 10 km, durante lo scatto finale per superare un paio di corridori davanti a me... Il risultato? Una bella vomitata sul prato accanto all’arrivo! Quindi, a meno che non siate professionisti o in procinto di vincere qualche gara, è meglio sempre tenersi un pochino al di sotto di tale limite... Una volta stabilita con precisione la propria Velocità di Riferimento è possibile capire a quale ritmo correre i nostri allenamenti pianificati.
Se dovessimo sintetizzare le varie tipologie di allenamento e calcolare i rispettivi Ritmi da associare ad essi, potremmo agevolmente utilizzare la seguente suddivisione:
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AutoreDavide Salvatore Chionna. Corridore e scrittore. Amo narrare luoghi ed emozioni. archivi
Settembre 2020
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